_Sandro Delmastro delle Vedove
Il successo diplomatico conseguito il mese scorso dalla Cina come mediatrice nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita ha continuato a produrre frutti in tutta l’Asia occidentale. Il 6 aprile, i ministri degli Esteri dei due paesi si sono incontrati a Pechino e firmato una dichiarazione comune che specifica le misure che le due “nazioni sorelle” hanno adottato dalla riconciliazione, tra cui spiccano la riapertura delle missioni diplomatiche e il dialogo commerciale e di sicurezza. C’è stato anche un progresso nello sforzo per mettere fine alla guerra civile che da quasi un decennio insanguina il piccolo Yemen, la nazione più povera della regione. Il 9 aprile ci sono stati colloqui tra i rappresentanti sauditi, che hanno lanciato e finanziato la guerra, e il governo yemenita. Lo spiraglio di pace apertosi in Yemen dimostra la bontà e la lungimiranza dell’approccio dello Schiller Institute che, come noto, conduce da anni un dialogo con il governo yemenita orientato all’inserimento nella prospettiva della Belt and Road Initiative.
L’accordo tra Teheran e Riad ha anche aperto una prospettiva di stabilizzazione e ricostruzione per la Siria. Il 12 aprile il ministro degli Esteri di Damasco, Faisal Mekdad, si è recato in Arabia Saudita, la prima visita da dodici lunghi anni. Al centro dei colloqui, la stabilizzazione dell’intero territorio siriano, l’accesso di tutte le aree agli aiuti umanitari e, molto importante, il “sostegno alle istituzioni dello stato siriano” per porre fine “alla presenza di milizie armate e interferenze esterne negli affari interni della Siria”. Due giorni dopo c’è stata una riunione dei ministri degli esteri dei paesi del Golfo più Egitto, Giordania e Iraq per discutere la riammissione della Siria nella Lega Araba. Che cosa significa tutto ciò per la diplomazia americana nella regione? A questo interrogativo ha risposto, tra gli altri, l’ex ambasciatore Usa in Arabia Saudita ed ex vice-capomissione in Cina, Chas Freeman. Intervenendo alla conferenza dello Schiller Institute il 15-16 aprile, Freeman ha fatto notare che Washington non ha alcun interesse a mediare una riconciliazione tra l’alleato saudita e il nemico proclamato Iran, a causa del suo “esclusivo affidamento sugli approcci coercitivi alle relazioni internazionali”.
“Pechino ha a lungo trattato il Medio Oriente come una sfera d’influenza americana in cui non poteva svolgere alcun ruolo politico attivo”, ma gli sforzi americani per impedire lo sviluppo economico e tecnologico della Cina e alimentare il conflitto con Taiwan hanno dissipato la “riluttanza di Pechino ad asserire la propria influenza” nella regione. La Cina ha dimostrato di “essere all’altezza della formidabile sfida di sostenere un serio processo di pace in Medio Oriente. Il contrasto con decenni di fallimenti americani nella soluzione del conflitto israelo-palestinese è stridente”. Ora, secondo Freeman, la Cina è decisa a far applicare “i principii su cui ha portato Riad e Teheran ad accordarsi. Tutto ciò segna la fine effettiva dell’egemonia americana in Medio Oriente e l’emergere dell’influenza cinese come fattore credibile e costruttivo nella regione”. L’ex diplomatico ha concluso che sarebbe negli interessi degli Stati Uniti, dell’Europa e di altre potenze esterne assistere la Cina nel “produrre una pace sostenibile nel Golfo Persico”.
SPECIALE NATALE 2022
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